Noi, fratelli del figliolo prodigo
Lc 15,1-3.11-32 – I domenica di Quaresima – (30 marzo 2025)
Fr. Goffredo Boselli, monaco della Madia
Possiamo leggere le parabole dei Vangeli senza sapere esattamente se siamo l’operaio della prima ora o l’operaio dell’undicesima ora, se siamo la pecora perduta o una della novantanove lasciate nel deserto. Ma nella parabola del figliol prodigo no: il nocciolo del discorso di Cristo è rivolto al figlio maggiore, perché siamo tutti fratelli del figliol prodigo.
Sì, siamo i fratelli del figliol prodigo, e questa parabola vuole farci comprendere chiaramente cosa Dio si aspetta da noi, e capire che credere in lui non significa solo obbedire a norme, costumi, regole e tradizioni. Tutto questo viene spesso riassunto sotto il nome di moralità. Gesù Cristo non ha predicato una nuova morale ma un’altra possibile dimensione dell’esistenza che sta oltre la pur necessaria morale. Questa è la novità del Vangelo.
La parabola del figliol prodigo offre un’antimoralità, cioè rivela un volto di Dio che ci allontana da ciò che travestiamo con il nome di Dio quando vogliamo governare gli uomini, la società, la chiesa. È un insegnamento che rovescia la nostra trascrizione quotidiana della volontà di Dio. Più in generale, questa parabola ci mette in guardia contro la tentazione di una religione delle prestazioni e della compravendita, bastata sulla logica della punizione e della ricompensa. Dicendo al figlio maggiore “tutto ciò che è mio è tuo”, il padre contraddice l’idea di una ricompensa automatica e proporzionale per una vita docile, fedele e obbediente in tutto.
Questa religione è quella dei farisei e dei dottori della Legge che non amano che Gesù accolga i peccatori e mangi con loro. Una religione in cui si obbedisce per ottenere una ricompensa in modo del tutto meccanico. Il Vangelo ci invita ad allontanarci dalle nostre inclinazioni “naturali”, da questo tipo di moralità che si fonda unicamente sul conformismo, sull’unica regola, sull’unico automatismo di una giustizia semplicissima e, in definitiva, del tutto e solo umana. Sì, questa parabola ci dice con forza che la giustizia di Dio non è la bella copia della giustizia degli uomini.
Quando il padre della parabola dice di essere contento che suo figlio “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” è per affermare che, di fronte alla vita fatta di eccessi, errori, vizi e disperazione del figlio minore, la sua logica non è una logica di punizione o di disperazione, ma quella di aprire le braccia oltre il perdono. A dire che il rapporto con il padre Dio si costruisce attraverso una storia, un amore e non in relazione a norme. La misericordia di Dio non è la ricompensa per i più meritevoli ma la speranza dei perduti.
Questo Vangelo ci ricorda che la certezza della retta via è comoda ma illusoria: il figlio maggiore crede che riceverà una ricompensa dal padre e non ha capito di aver già ereditato tutto. La sua unica preoccupazione per l’obbedienza lo chiude alla grandezza dell’amore del padre, poiché il suo universo mentale esclude la festa per il ritorno del fratello perduto.
Questo Vangelo ci dice che l’amore di Dio è più grande di quanto immaginiamo: per noi e per gli altri, per coloro di cui dubitiamo, per coloro che crediamo siano perduti. Ecco il rischio della fede, ecco lo splendore della grazia: poiché la libertà è donata a ciascuno, la nostra salvezza è riposta nelle mani di Dio e non nelle ambizioni umane di santificazione.
Dobbiamo essere certi che il padre apre le braccia mentre noi restiamo imbronciati nel nostro angolo, che il padre apre le porte e apre la sua tavola mentre noi restiamo fuori contando la nostra piccola eredità in monete d’argento. E non dimentichiamo che il mondo reale – la società come la chiesa – è il più delle volte governato dal fratello del figliol prodigo.