Per la vita del mondo
Gv 6, 51-58 – XX domenica dell’ordinario – (18 agosto 2024)
“Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Rischiamo anche noi di passare accanto al cammino di salvezza che i vangeli ci raccontano se non siamo capaci di assumere tutto intero l’estremo realismo di questo dono di sé fatto da Cristo. Un dono di sé così concreto e fisico da ripugnare i suoi ascoltatori: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Eppure, arriva a comprende tutta l’intensità e la carica dell’umanità di Gesù Cristo solo chi è disposto a spingersi ad un realismo estremo. A una materialità e a una corporeità che non escludono nulla di ciò che è
autenticamente umano.
Come lo è per ogni uomo e donna così è stato per Gesù: il suo corpo fu l’espressione della sua personalità, ossia del suo modo di vivere, di essere sé stesso e di entrare in relazione con gli altri. “Cristo si manifestò nella carne” (1Tm 3,16), scrive l’Apostolo, a dire che le persone qualunque che si avvicinavano a Gesù non avevano altro da riconoscere come manifestazione che la sua carne. Hanno riconosciuto Gesù nel suo corpo perché da quel corpo si sono sentite riconosciute, guardate, ascoltate, accolte, perdonate, toccate e curate. Era un corpo che riconciliava con sé stessi, con gli altri e con Dio. Tutto questo era possibile perché era un corpo realmente presente. La presenza agli altri di Gesù era reale e per questo con le sue parole li cibava di senso e con suoi gesti li nutriva di amore.
Cos’hanno avuto in comunione tutte quelle persone che per mille ragioni diverse si sono accostate a Gesù? Cos’hanno avuto in come i discepoli, le donne, i malati, i peccatori, ma anche quelli lo hanno osteggiato? Cos’hanno avuto in comune se non quel corpo? Hanno partecipato di quel corpo, si sono nutrite di quella vita come ci si nutre del pane. Così il corpo di Gesù ha creato comunione tra tutti coloro che in quel corpo hanno trovato nutrimento per la loro vita. Quella carne è stata pane: pane di senso, pane di speranza, pane di consolazione, pane di perdono. Anche coloro che quel corpo lo hanno messo a morte, anche loro hanno partecipato di quel corpo.
Infatti, il corpo di Gesù non è stato solo cibo di riconciliazione e di comunione, ma anche corpo di divisione e di scandalo. Non solo pane di vita ma anche pietra d’inciampo. Per alcuni, le parole di Gesù erano parole blasfeme, bestemmie. I suoi gesti sacrilegi, profanazioni, violazioni. Il corpo di Gesù costringe, ieri come oggi, a prendere posizione, a decidere, a scegliere. Perché quel corpo è la rivelazione definitiva di Dio: da accogliere o ha rifiutare.
Ogni volta infatti che la rivelazione di Gesù Cristo raggiunge i suoi vertici, la sua parola si fa densa, consistente, e per questo difficile da ascoltare, fino al punto da essere percepita come irricevibile. È l’esito del discorso sul pane di vita: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Ecco la vera domanda: chi può ascoltare la parola di Gesù Cristo? Chi può nutrirsi della parola di un uomo del tutto incapace di tacere la verità? Perché tacere, per Gesù, significherebbe soffocare la fonte di vita che lo abita: “Io non ho parlato da me stesso, ma il Padre mi ha comandato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire” (Gv 12,49).
Tutte le proprietà del corpo di Gesù, dunque dell’interezza di quella persona reale, ciò che ha caratterizzato quella concreta esistenza sono, per opera dello Spirito santo, il pane che noi spezziamo e il calice che noi benediciamo. Tutto ciò che il corpo di Gesù è nei vangeli è l’eucaristia nella chiesa.
Goffredo Boselli